L’uno per cento avverte sintomi che appartengono allo spettro della schizofrenia

L’uno per cento avverte sintomi che appartengono allo spettro della schizofrenia

Includendo il vissuto dei pazienti come parte integrante della ricerca, emerge come la schizofrenia sia in realtà una moltitudine di disturbi che hanno alcune caratteristiche in comune. E se può esserci una predisposizione genetica, l’ambiente, come l’eventuale uso di droghe, sono determinanti nello scatenare i sintomi. Ma le terapie ci sono, e in alcuni casi si può anche guarire.

L’esperienza della schizofrenia, nonostante sia accomunata da sintomi che ritornano con frequenza, è diversa per ognuno di noi. Esistono i pazienti e il loro quotidiano, più che la schizofrenia in sé. Come spesso accade nelle diverse condizioni che siamo soliti chiamare “malattia mentale“, a leggere le storie dei pazienti, i racconti delle loro sensazioni, non è insolito ricordare, anche in modo offuscato, non sicuro, di aver percepito una volta quella sensazione descritta. Un processo proustiano di elaborazione e centellinato riconoscimento delle micro o macro sensazioni che in una vita spesso si percepiscono.

Statisticamente l’uno per cento delle persone manifesta nel corso della propria vita un insieme di sintomi che appartengono allo spettro della schizofrenia, il più severo tra i disturbi psicotici. Si tratta di una condizione non rara, dunque, ma soprattutto reversibile, in almeno un terzo dei casi.

Spesso la persona che sperimenta sintomi psicotici pensa di avere qualche cosa che non va nel proprio “sistema operativo”, un bug che porta la mente a non funzionare come dovrebbe. Che si sia nati con qualcosa di rotto, dove il pensiero può triggerare quel senso di non riconoscimento di sé.

Pierluigi Politi, psichiatra e psicoterapeuta, professore ordinario all’Università di Pavia e direttore del Dipartimento di salute mentale e dipendenze: “L’idea di fondo è che un delirio non sia una sorta di opera d’arte patologica che compare ex-novo nella mente di una persona, quanto invece una risposta difensiva di una mente che non riesce a spiegare altrimenti il terremoto, il disastro che gli sta accadendo dentro. Non si riconosce più in ciò che era e dunque struttura una spiegazione esterna.”

Nel 2022 un gruppo di ricercatori, che include alcuni nomi di grande rilievo della psichiatria italiana come Paolo Fusar-Poli e Mario Maj, ha pubblicato un lavoro per certi versi rivoluzionario: per la prima volta, psicopatologi e pazienti hanno co-descritto efficacemente insieme il vissuto della schizofrenia nelle sue diverse fasi. L’articolo si intitola “The lived experience of psychosis: a bottom-up review co-written by experts by experience and academics” (L’esperienza vissuta della psicosi: una recensione dal basso verso l’alto co-scritta da esperti di esperienza e accademici), ed è stato pubblicato sulla rivista scientifica “World Psychiatry“, ed è da lì che sono tratti i racconti in apertura di questo pezzo. “Prima, le descrizioni di questa condizione erano essenzialmente quelle degli specialisti, oppure descrizioni naive di alcuni pazienti – spiega Politi – mentre in questo caso il contributo dei pazienti è divenuto parte integrante del disegno dello studio, che rappresenta un grande cambiamento a livello metodologico nella ricerca clinica”.

Quello che è emerso è che le prime fasi della psicosi (cioè le fasi premorbose e prodromiche) sono caratterizzate da temi esistenziali fondamentali tra cui la perdita del senso comune, la perplessità rispetto alle proprie convinzioni, e la mancanza di immersione nel mondo con un contatto vitale compromesso con la realtà. In questa fase le persone raccontano la sensazione inquietante che qualcosa di importante stia per accadere, sentono una perturbazione nel senso di sé ma al tempo stesso manifestano grande autoreferenzialità, disinteresse reale per il circostante; tutte dinamiche che comportano la necessità in queste persone di nascondere agli altri questo caos interiore che si percepisce e che porta ad allontanarsi dagli altri, il ritiro sociale.

Quando la schizofrenia viene trattata farmacologicamente, con il ritiro sociale, e con il necessario supporto sociale, per adeguato periodo di tempo, circa un terzo delle persone guarisce completamente, cioè torna a una vita piena senza sintomi, dove la schizofrenia resta solo il ricordo di un periodo difficile e superato. Un altro terzo dei pazienti riesce a tenere la malattia sotto controllo, talvolta avendo delle ricadute, ma grosso modo riuscendo – con una corretta terapia occupazionale – ad avere una vita normale; mentre un terzo dei pazienti rimane in una condizione limitata, pesante e deficitaria.

L’approccio ai sintomi schizofrenici è farmacologico, psicologico e sociale. È noto che alla base della schizofrenia, delle psicosi in genere, ci siano delle alterazioni neurochimiche che riguardano i neurotrasmettitori, in particolare i circuiti della dopamina e della serotonina. La ricerca scientifica ha capito che non esiste un gene della schizofrenia ma ve ne sono diversi coinvolti, come avviene per molte altre condizioni. Altrettanto importante per la riuscita dell’aiuto è che la persona non “rimanga indietro”. Purtroppo, uno dei primi elementi della vita che saltano è il lavoro, la partecipazione sociale, le relazioni individuali. Molte persone che non riescono a essere ben supportate nella gestione della terapia, possono avere delle ricadute e necessitare di un ricovero; tutto questo aumenta ancora di più l’isolamento, lo stigma, in un circolo vizioso.

Un problema enorme per i disturbi mentali è la diffusione incontrollata delle sostanze psicotrope. “Queste sostanze sono in grado di scatenare quadri latenti, così come sono in grado di destabilizzare condizioni di compenso, moltiplicando la sintomatologia psicotica. Esistono molte sostanze dotate di queste potenzialità, purtroppo, e altre vengono continuamente immerse sul mercato. Per questo motivo, quando una persona si presenta in Pronto Soccorso con allucinazioni e deliri, viene in genere sottoposta ad un esame tossicologico” spiega Politi.

“L’approccio ai disturbi psicotici, spiega Politi, non deve essere tanto assistenziale, con sussidi economici a lungo termine, ma riabilitativo fin dalle prime fasi: un intervento che preveda un supporto psicologico (non dimentichiamo come spesso ci siano difficoltà cognitive su cui intervenire), relazionale, lavorativo. Tutto ciò deve accompagnare la ricerca del farmaco più efficace per quella persona, insieme al dosaggio più adatto. Armandosi di grande pazienza, naturalmente: a volte occorrono mesi, a volte anni, prima di poter apprezzare i benefici di un antipsicotico. Senza dimenticare che, nel frattempo, la persona soffre: è quella la prima fase cruciale in cui non deve rimanere indietro.”

 

 

Photo: Centroitalianoperlapsiche.it

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Fonte: Sociale.it